Ordinanza n. 116 del 2022

ORDINANZA N. 116

ANNO 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giuliano AMATO;

Giudici: Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 191 del codice di procedura penale, e dell’art. 103 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), promosso dal Tribunale ordinario di Lecce, in composizione monocratica, nel procedimento penale a carico di G. G., con ordinanza del 26 ottobre 2020, iscritta al n. 37 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 aprile 2022 il Giudice relatore Franco Modugno;

deliberato nella camera di consiglio del 7 aprile 2022.

Ritenuto che con ordinanza del 26 ottobre 2020 (reg. ord. n. 37 del 2021), il Tribunale ordinario di Lecce, in composizione monocratica, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale:

  1. a) dell’art. 191 del codice di procedura penale, in riferimento agli 2, 3, 13, 14, 24, 97, terzo (recte: secondo) comma, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, nella parte in cui – secondo l’interpretazione predominante nella giurisprudenza di legittimità, assunta quale diritto vivente – «non prevede che la sanzione dell’inutilizzabilità della prova acquisita in violazione di un divieto di legge […] si applichi anche alle c.d. “inutilizzabilità derivate”, e riguardi quindi anche gli esiti probatori, ivi compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, degli atti di perquisizione ed ispezione domiciliare e personale: a) compiuti dalla p.g. fuori dei casi in cui la legge costituzionale e quella ordinaria le attribuiscono il relativo potere; b) compiuti dalla p.g. fuori del caso di flagranza di reato, in forza di autorizzazione data verbalmente dal P.M. senza che ne risultino contestualmente le ragioni concrete ed effettivamente pertinenti; c) compiuti dalla p.g., fuori del caso di previa flagranza del reato, in forza di segnalazioni anonime o confidenziali e su tali basi autorizzat[i] o convalidat[i] dal P.M.; d) compiuti dalla pg. fuori del caso di previa flagranza del reato, e successivamente convalidati dal P.M., senza motivare concretamente su quali fossero gli elementi utilizzabili la cui ricorrenza integrasse valide ragioni che legittimassero la perquisizione»;
  2. b) dell’art. 103 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), in riferimento agli 13, 14 e 117, primo comma, Cost. – quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU –, «nella parte in cui prevede che il P.M. possa consentire l’esecuzione di perquisizioni in forza di autorizzazione orale, senza necessità di una successiva documentazione formale delle concrete e specifiche ragioni per cui l’ha rilasciata»;

che il giudice a quo premette di procedere con rito ordinario nei confronti di una persona tratta a giudizio per aver illecitamente detenuto modesti quantitativi di sostanze stupefacenti destinati alla cessione a terzi;

che la principale fonte di prova del fatto è costituita dall’esito della perquisizione domiciliare eseguita presso l’abitazione dell’imputato, che aveva portato al rinvenimento e al conseguente sequestro delle sostanze: perquisizione effettuata dalla polizia giudiziaria su autorizzazione orale del pubblico ministero e a seguito di notizie comunicate alla stessa polizia giudiziaria tramite una telefonata anonima;

che, sebbene l’art. 103 t.u. stupefacenti, al momento dell’ordinanza di rimessione, non lo prevedesse nei casi in cui il pubblico ministero avesse rilasciato un’autorizzazione orale, nella specie il pubblico ministero aveva convalidato, con unico provvedimento, non solo il sequestro, ma anche la perquisizione;

che la motivazione della convalida atteneva, peraltro, alle sole ragioni del sequestro (convalidato in quanto avente ad oggetto il corpo del reato o cose pertinenti al reato), rimanendo invece totalmente muta riguardo alle ragioni giustificatrici della perquisizione;

che, ad avviso del rimettente, tale perquisizione dovrebbe considerarsi abusiva, in quanto compiuta fuori dei casi tassativamente indicati dalla legge e in assenza di valido atto autorizzativo;

che, riproponendo e sviluppando le considerazioni già svolte in precedenti ordinanze di rimessione, il giudice a quo rileva che l’art. 13 Cost. (richiamato, quanto a garanzie e forme ivi previste, dall’art. 14 Cost. con riguardo a ispezioni, perquisizioni e sequestri domiciliari) prevede che ogni forma di limitazione della libertà personale – compresa quella insita nelle ispezioni e nelle perquisizioni personali – possa essere disposta solo con «atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge»: laddove il riferimento all’«atto motivato» implicherebbe la necessità della forma scritta, o, comunque sia, di una qualche forma di documentazione dell’eventuale autorizzazione orale, non essendo altrimenti verificabile l’osservanza del requisito della motivazione;

che al principio dianzi indicato può derogarsi unicamente «[i]n casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge», nei quali l’autorità di pubblica sicurezza può adottare «provvedimenti provvisori» soggetti a convalida da parte dell’autorità giudiziaria, in difetto della quale essi «si intendono revocati e restano privi di ogni effetto»;

che, pur in assenza di una esplicita previsione in tal senso, anche la convalida dovrebbe essere effettuata – secondo il rimettente – mediante provvedimento motivato, rimanendo altrimenti frustrata la ratio della garanzia apprestata dalla norma costituzionale;

che l’ipotesi principale che, in base alla legge ordinaria, legittima l’intervento eccezionale delle forze di polizia è quella della flagranza di reato (art. 352 cod. proc. pen.);

che norme speciali hanno, peraltro, ampliato i casi nei quali la polizia giudiziaria può procedere a ispezioni e perquisizioni;

che una delle fattispecie più ricorrenti nella pratica – e rilevante nel giudizio a quo – è quella contemplata dall’art. 103 t.u. stupefacenti, i cui commi 2 e 3 abilitano la polizia giudiziaria a procedere – nel corso di operazioni finalizzate alla prevenzione e alla repressione del traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope – rispettivamente, all’ispezione dei mezzi di trasporto, dei bagagli e degli effetti personali, e a perquisizioni, allorché vi sia «fondato motivo» di ritenere che possano essere rinvenute tali sostanze e ricorrano, altresì – nel caso delle perquisizioni – «motivi di particolare necessità ed urgenza che non consentano di richiedere l’autorizzazione telefonica del magistrato competente»;

che, alla luce di tale quadro normativo, la perquisizione di cui si discute nel giudizio a quo risulterebbe illegittima;

che la perquisizione è stata, infatti, operata dalla polizia giudiziaria fuori dalla preventiva percezione di una situazione di flagranza di reato e in forza di un’autorizzazione data dall’autorità giudiziaria verbalmente, senza, quindi, che ne risulti la motivazione: autorizzazione rilasciata, per giunta, a seguito di richiesta della polizia giudiziaria fondata su una denuncia anonima, la quale non avrebbe potuto essere utilizzata, né posta a base di alcun provvedimento, stante il generale divieto stabilito dall’art. 240 cod. proc. pen.;

che neppure, d’altra parte, l’attività di perquisizione potrebbe ritenersi «“sanata”» dal successivo provvedimento di convalida, mancando in esso ogni motivazione riguardo alle ragioni che giustificavano la perquisizione stessa;

che, ciò premesso, il giudice rimettente assume che, alla luce della previsione dell’art. 13 Cost., gli atti di ispezione e perquisizione personale e domiciliare eseguiti abusivamente dalla polizia giudiziaria, o non convalidati dall’autorità giudiziaria con atto motivato, dovrebbero rimanere privi di effetto anche sul piano probatorio;

che l’unica efficacia perdurante nel tempo di tali atti è, infatti, quella relativa alla loro «capacità probatoria»: di modo che la perdita di efficacia non potrebbe che equivalere, per essi, a quella che, nell’art. 191 cod. proc. pen., è qualificata come inutilizzabilità delle prove assunte in violazione di un divieto di legge;

che tale esito interpretativo risulterebbe, tuttavia, contraddetto dall’indirizzo della giurisprudenza di legittimità divenuto «assolutamente dominante» a partire dalla sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite penali, 27 marzo-16 maggio 1996, n. 5021;

che le Sezioni unite hanno ritenuto, infatti, valido il sequestro conseguente a una perquisizione eseguita fuori dai casi e dai modi previsti dalla legge, allorché abbia ad oggetto il corpo del reato o cose pertinenti al reato, posto che, in tal caso, il sequestro costituisce un atto dovuto ai sensi dell’art. 253, comma 1, cod. proc. pen., che non potrebbe essere omesso dalla polizia giudiziaria solo a causa dell’abuso compiuto;

che il giudice a quo dubita, tuttavia, che l’art. 191 cod. proc. pen., nella lettura offertane dal diritto vivente, possa ritenersi compatibile con il dettato costituzionale;

che l’interpretazione censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 13 e 14 Cost., negando concreta attuazione alla previsione della perdita di efficacia delle perquisizioni e delle ispezioni, nonché dei sequestri ad esse conseguenti, ove eseguiti in violazione dei divieti;

che la disciplina stabilita dall’art. 191 cod. proc. pen. mirerebbe ad offrire una efficace tutela ai diritti costituzionalmente garantiti, disincentivando le loro violazioni finalizzate all’acquisizione della prova, col prevedere l’inutilizzabilità dei relativi risultati: ammettendo una “sanatoria” ex post di tali violazioni, legata agli esiti della perquisizione o dell’ispezione, si verrebbe, per converso, a negare la tutela del cittadino in confronto agli abusi della polizia giudiziaria;

che l’interpretazione denunciata violerebbe anche l’art. 3 Cost., in quanto escluderebbe l’inutilizzabilità in casi del tutto analoghi ad altri per i quali la legge espressamente la prevede, o la giurisprudenza, comunque sia, la riconosce (quali, ad esempio, quelli delle intercettazioni e delle acquisizioni di tabulati del traffico telefonico eseguite dalla polizia giudiziaria in assenza di provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria), dando luogo, altresì, al paradosso di un sistema giuridico che vede «inefficaci ab origine le leggi incostituzionali», ma «efficacissimi», anche sotto il profilo probatorio, gli atti di polizia giudiziaria compiuti in violazione dei diritti costituzionali del cittadino;

che la soluzione ermeneutica censurata lederebbe anche l’art. 2 Cost., facendo sì che vengano a mancare effettive garanzie contro le illecite compromissioni dei diritti inviolabili dell’uomo; come pure l’art. 97, secondo comma, Cost., che sottopone in via generale l’azione dei pubblici poteri al principio di legalità, rendendo prevalente l’azione illegale degli organi statali, finalizzata alla repressione dei reati, rispetto ai diritti costituzionali dei consociati: con ulteriore violazione dell’art. 3 Cost., posto che, in un ordinamento che prevede come centrali i diritti inviolabili della persona, questi dovrebbero porsi, quantomeno, sullo stesso piano dei diritti della collettività e dello Stato;

che un conclusivo profilo di violazione dell’art. 3 Cost. è ravvisato nel fatto che l’interpretazione censurata si trova irrazionalmente a convivere con quella che riconosce l’inutilizzabilità di prove vietate dalla legge solo perché non verificabili (come nel caso degli scritti anonimi e delle fonti confidenziali);

che l’«insondabilità» degli elementi che hanno spinto la polizia giudiziaria a eseguire la perquisizione non consentirebbe di escludere che siano stati proprio i terzi latori della notizia confidenziale o anonima – se non, addirittura, come talora pure è avvenuto, le stesse forze di polizia – a introdurre nell’abitazione dell’imputato la res illicita, con conseguente violazione anche dell’art. 24 Cost., per compromissione del diritto di difesa, nonché dell’art. 111 Cost., «per vanificazione del diritto dell’imputato ad un Giudice imparziale e dotato del potere di esercitare la giurisdizione nel giusto processo»;

che la lettura della norma denunciata offerta dal diritto vivente si porrebbe in contrasto, infine, con l’art. 8 CEDU e, quindi, con l’art. 117, primo comma, Cost., risolvendosi nella mancata adozione di efficaci disincentivi agli abusi delle forze di polizia che implichino indebite interferenze nella vita privata della persona o nel suo domicilio: abusi contro i quali – secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo – il diritto interno deve offrire garanzie adeguate e sufficienti;

che il rimettente dubita, per altro verso, della legittimità costituzionale dell’art. 103 t.u. stupefacenti, «nella parte in cui prevede che il P.M. possa consentire l’esecuzione di perquisizioni in forza di autorizzazione orale senza necessità di una successiva documentazione formale delle ragioni per cui l’ha rilasciata»: dubbio – secondo il rimettente – di evidente rilevanza nel giudizio a quo, in quanto è sulla base di tale disposizione che è stata eseguita la perquisizione che ha portato al rinvenimento del corpo del reato ascritto all’imputato;

che sulla scorta delle considerazioni già svolte, il rimettente reputa che la norma censurata violi, in parte qua, gli artt. 13, 14 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, non consentendo una simile autorizzazione un controllo effettivo sulla sussistenza delle condizioni che legittimano la perquisizione;

che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate;

che l’Avvocatura dello Stato rileva che questa Corte si è già pronunciata con due recenti sentenze su questioni sostanzialmente identiche, sollevate dal medesimo giudice;

che con la sentenza n. 252 del 2020, questa Corte si è espressa nel senso auspicato dal rimettente, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 103, comma 3, t.u. stupefacenti nella parte in cui non prevede che anche le perquisizioni personali e domiciliari autorizzate per telefono debbano essere convalidate;

che le questioni concernenti tale norma dovrebbero essere dichiarate, pertanto, inammissibili per sopravvenuta mancanza di oggetto, in quanto, a seguito della citata sentenza, la norma censurata è stata già rimossa dall’ordinamento con efficacia ex tunc;

che con la stessa sentenza n. 252 del 2020 e con la precedente sentenza n. 219 del 2019 – soggiunge l’interveniente – questa Corte ha dichiarato, invece, inammissibili (e indi manifestamente inammissibili) le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 191 cod. proc. pen., rilevando come, con esse, il rimettente, mirasse a trasferire nella disciplina dell’inutilizzabilità un concetto di vizio derivato che il sistema contempla esclusivamente nel campo, ben distinto, delle nullità;

che il petitum si traduceva, quindi, nella richiesta di una pronuncia «fortemente “manipolativa”», volta a rendere automaticamente inutilizzabili gli atti di sequestro, «attraverso il “trasferimento” su di essi dei “vizi” che affliggerebbero gli atti di perquisizione personale e domiciliare dai quali i sequestri sono scaturiti» (sentenza n. 219 del 2019): il che rendeva le questioni inammissibili, vertendosi in materia caratterizzata da ampia discrezionalità del legislatore (quale quella processuale) e discutendosi, per giunta, di una disciplina di natura eccezionale (quale quella relativa ai divieti probatori e alle clausole di inutilizzabilità processuale);

che la medesima soluzione si imporrebbe – a parere dell’interveniente – in rapporto alle questioni oggi in esame, con le quali il rimettente lamenta che l’inutilizzabilità non colpisca anche gli esiti probatori delle perquisizioni operate dalla polizia giudiziaria in assenza di una situazione di flagranza di reato e sulla base di elementi non utilizzabili, quali le fonti confidenziali;

che, nel merito, le questioni relative all’art. 191 cod. proc. pen. risulterebbero comunque sia non fondate, perché almeno per le cose il cui sequestro è obbligatorio e, in particolare, per le cose il cui possesso integra un reato (com’è per la sostanza stupefacente), l’illegittimità della perquisizione che ne ha consentito il rinvenimento non potrebbe travolgere anche l’apprensione del bene, in quanto l’omessa apprensione determinerebbe immediatamente una condizione di flagrante commissione di un reato in capo al soggetto che fosse mantenuto nel possesso della cosa.

Considerato che, con l’ordinanza di rimessione in esame, il Tribunale ordinario di Lecce, in composizione monocratica, solleva due distinti gruppi di questioni;

che il giudice a quo dubita, in primo luogo, della legittimità costituzionale dell’art. 191 del codice di procedura penale, nella parte in cui, secondo l’interpretazione predominante nella giurisprudenza di legittimità, assunta quale diritto vivente, «non prevede che la sanzione dell’inutilizzabilità della prova acquisita in violazione di un divieto di legge […] si applichi anche alle c.d. “inutilizzabilità derivate”, e riguardi quindi anche gli esiti probatori, ivi compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, degli atti di perquisizione ed ispezione domiciliare e personale: a) compiuti dalla [polizia giudiziaria] fuori dei casi in cui la legge costituzionale e quella ordinaria le attribuiscono il relativo potere; b) compiuti dalla [polizia giudiziaria] fuori del caso di flagranza di reato, in forza di autorizzazione data verbalmente dal [pubblico ministero] senza che ne risultino contestualmente le ragioni concrete ed effettivamente pertinenti; c) compiuti dalla [polizia giudiziaria], fuori del caso di previa flagranza del reato, in forza di segnalazioni anonime o confidenziali e su tali basi autorizzat[i] o convalidat[i] dal [pubblico ministero]; d) compiuti dalla [polizia giudiziaria] fuori del caso di previa flagranza del reato, e successivamente convalidati dal [pubblico ministero], senza motivare concretamente su quali fossero gli elementi utilizzabili [che legittimavano] la perquisizione»;

che, ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe, anzitutto, gli artt. 13 e 14 della Costituzione, in forza dei quali le perquisizioni personali e domiciliari possono essere disposte solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge; principio al quale può derogarsi solo in casi eccezionali di necessità e urgenza indicati tassativamente dalla legge, nei quali l’autorità di pubblica sicurezza può adottare «provvedimenti provvisori» soggetti a convalida da parte dell’autorità giudiziaria (da rilasciare anch’essa con atto motivato), in difetto della quale essi «si intendono revocati e restano privi di ogni effetto»: previsione, questa, che implicherebbe necessariamente l’inutilizzabilità dei loro risultati sul piano probatorio, anche perché solo in questo modo si tutelerebbero efficacemente i diritti fondamentali alla libertà personale e domiciliare, disincentivando la loro violazione ad opera della polizia giudiziaria per finalità di ricerca della prova;

che risulterebbe, altresì, violato l’art. 3 Cost., sotto un duplice profilo: da un lato, per l’ingiustificata disparità di trattamento delle ipotesi considerate rispetto a situazioni analoghe, per le quali la sanzione dell’inutilizzabilità è espressamente prevista dalla legge o riconosciuta dalla giurisprudenza, quali quelle delle intercettazioni e dell’acquisizione di tabulati del traffico telefonico operate dalla polizia giudiziaria in difetto di provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria; da un altro lato, perché si verrebbe a teorizzare un sistema che, paradossalmente, considera «inefficaci ab origine le leggi incostituzionali», ma «efficacissimi», anche sotto il profilo probatorio, gli atti di polizia giudiziaria compiuti in violazione dei diritti costituzionali del cittadino;

che la soluzione ermeneutica censurata lederebbe anche l’art. 2 Cost., facendo sì che vengano a mancare effettive garanzie contro le illecite compromissioni dei diritti inviolabili dell’uomo; come pure gli artt. 3 e 97, terzo (recte: secondo) comma, Cost., rendendo prevalente l’azione illegale degli organi statali, finalizzata alla repressione dei reati, rispetto ai diritti inviolabili dei consociati, posti al centro dell’ordinamento costituzionale;

che il rimettente deduce, ancora, la violazione degli artt. 3 e 24 Cost., essendo generalmente riconosciuta l’inutilizzabilità di prove vietate dalla legge solo perché non verificabili (quali gli scritti anonimi e le fonti confidenziali), mentre, nell’ipotesi in esame, si considerano irrazionalmente utilizzabili prove acquisite in diretta violazione di un divieto di legge (anche costituzionale) e caratterizzate anch’esse da una «ridotta verificabilità», in particolare quanto agli elementi che hanno indotto la polizia giudiziaria a procedere alla perquisizione, con conseguente compromissione anche del diritto di difesa dell’imputato;

che, in questo modo, verrebbe violato pure l’art. 111 Cost., «per vanificazione del diritto dell’imputato ad un Giudice imparziale e dotato del potere di esercitare la giurisdizione nel giusto processo», non potendosi considerare imparziale e indipendente un giudice che non abbia un adeguato potere di verifica degli elementi a carico dell’imputato;

che viene prospettata, infine, la violazione dell’art. 117 Cost., in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, giacché verrebbero a mancare efficaci disincentivi agli abusi delle forze di polizia che implichino indebite interferenze nella vita privata della persona o nel suo domicilio;

che il Tribunale di Lecce dubita, in secondo luogo, della legittimità costituzionale dell’art. 103 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), «nella parte in cui prevede che il P.M. possa consentire l’esecuzione di perquisizioni in forza di autorizzazione orale, senza necessità di una successiva documentazione formale delle concrete e specifiche ragioni per cui l’ha rilasciata»: in tal modo violando – secondo il rimettente – gli artt. 13, 14 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, posto che una simile autorizzazione non varrebbe ad assicurare un controllo effettivo sulla sussistenza delle condizioni che legittimano la perquisizione;

che, quanto alle questioni di legittimità costituzionale che investono l’art. 191 cod. proc. pen., va rilevato che questa Corte si è già pronunciata due volte su questioni sostanzialmente sovrapponibili alle odierne, sollevate dal medesimo giudice in riferimento agli stessi parametri costituzionali (fatta eccezione per l’art. 111 Cost.) con otto precedenti ordinanze di rimessione (le prime due delle quali emesse in veste di Giudice dell’udienza preliminare del medesimo Tribunale di Lecce);

che le questioni sono state dichiarate inammissibili (sentenza n. 219 del 2019) e indi manifestamente inammissibili (sentenza n. 252 del 2020);

che, nelle pronunce ora richiamate, si è osservato come con la disposizione censurata – secondo la quale «[l]e prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate» – il legislatore abbia inteso introdurre un meccanismo preclusivo che dissolvesse la stessa “idoneità” probatoria di atti vietati dalla legge, distinguendo nettamente tale fenomeno dai profili di inefficacia conseguenti alla violazione di una regola sancita a pena di nullità dell’atto;

che anche il vizio in questione resta, peraltro, soggetto – come le nullità – ai paradigmi della tassatività e della legalità;

che, infatti, essendo il diritto alla prova un connotato essenziale del processo penale, è solo la legge a stabilire – con norme di stretta interpretazione, in ragione della loro natura eccezionale – quali siano e come si atteggino i divieti probatori, in funzione di scelte di “politica processuale” spettanti in via esclusiva al legislatore: donde l’impossibilità – ripetutamente riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità – di riferire all’inutilizzabilità il regime del “vizio derivato”, contemplato dall’art. 185, comma 1, cod. proc. pen. solo nel campo delle nullità («[l]a nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo»);

che, in tale cornice, il petitum del rimettente si traduceva quindi nella richiesta di una pronuncia «fortemente “manipolativa”», volta a rendere automaticamente inutilizzabili gli atti di sequestro «attraverso il “trasferimento” su di essi dei “vizi” che affliggerebbero» – secondo la ricostruzione operata dal rimettente stesso – «gli atti di perquisizione personale e domiciliare dai quali i sequestri sono scaturiti» (sentenze n. 252 del 2020 e n. 219 del 2019);

che ciò rendeva le questioni inammissibili, vertendosi in materia caratterizzata da ampia discrezionalità del legislatore (quale quella processuale), e discutendosi, per giunta, di una disciplina di natura eccezionale (quale appunto quella relativa ai divieti probatori e alle clausole di inutilizzabilità processuale);

che lo stesso assunto del giudice a quo, secondo cui la soluzione proposta sarebbe stata necessaria al fine di disincentivare le pratiche di acquisizione delle prove con modalità lesive dei diritti fondamentali (rendendole «“non paganti”»), rivelava come le questioni coinvolgessero scelte di politica processuale riservate al legislatore; l’obiettivo di disincentivare gli abusi risulta, peraltro, perseguito dall’ordinamento vigente tramite la persecuzione diretta, in sede disciplinare o, se del caso, anche penale, della condotta “abusiva” della polizia giudiziaria, come del resto ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità;

che l’odierna ordinanza di rimessione – la cui motivazione ricalca ampiamente quella delle ordinanze già scrutinate, con taluni adattamenti legati alle peculiarità della fattispecie concreta – non appare foriera di apprezzabili elementi di novità;

che non può considerarsi tale, in specie, la parziale variazione del petitum, la quale – come già rilevato da questa Corte in rapporto alle analoghe operazioni compiute dal giudice a quo in alcune delle precedenti ordinanze di rimessione – non muta nella sostanza il thema decidendum, traducendosi in una mera specificazione (calibrata essa pure sulle peculiarità del caso di specie) del genus delle perquisizioni illegittime, secondo la visione del rimettente (sentenza n. 252 del 2020);

che la ratio decidendi delle precedenti pronunce di questa Corte resta, d’altro canto, valida anche a fronte della deduzione, da parte del giudice a quo, della violazione di un parametro costituzionale ulteriore rispetto a quelli precedentemente evocati (l’art. 111 Cost., in particolare sotto il profilo di una pretesa compromissione dell’imparzialità del giudice): censura che – nella prospettazione del rimettente – si presenta come meramente rafforzativa della denuncia, già in precedenza operata, della violazione degli artt. 3 e 24 Cost. connessa alla «ridotta verificabilità» degli elementi sulla cui base la polizia giudiziaria ha proceduto alla perquisizione, che si assume derivare dal diritto vivente censurato;

che le odierne questioni debbono essere, quindi, dichiarate anch’esse manifestamente inammissibili;

che quanto, invece, alle questioni concernenti l’art. 103 t.u. stupefacenti, questa Corte, con la sentenza n. 252 del 2020 – successiva all’ordinanza di rimessione –, ha già accolto identiche questioni (sollevate dal medesimo giudice a quo con una delle precedenti ordinanze) in riferimento agli artt. 13 e 14 Cost. (con assorbimento della censura di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU), dichiarando costituzionalmente illegittimo il comma 3 del citato art. 103 t.u. stupefacenti, nella parte in cui non prevede che anche le perquisizioni personali e domiciliari autorizzate per telefono debbano essere convalidate (con atto motivato, secondo quanto precisato nella motivazione della sentenza);

che in conformità al costante indirizzo della giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, ordinanze n. 206, n. 192 e n. 184 del 2021, n. 125 del 2020), le odierne questioni debbono essere, dunque, dichiarate manifestamente inammissibili perché ormai prive di oggetto, avendo la citata sentenza n. 252 del 2020 rimosso, in parte qua e con effetto ex tunc, la norma che determinava il denunciato contrasto con i parametri costituzionali evocati.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, vigente ratione temporis.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 191 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 14, 24, 97, secondo comma, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale ordinario di Lecce, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 103 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), sollevate, in riferimento agli artt. 13, 14 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, dal Tribunale ordinario di Lecce, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 aprile 2022.

F.to:

Giuliano AMATO, Presidente

Franco MODUGNO, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 9 maggio 2022.